In un angolo profondo, al caldo riparo delle viscere, sentiva da tempo un catramoso peso salire lento e ineluttabile.
L'aveva sempre temuto e aveva ripetutamente tentato di soffocarlo sotto raffiche di sensi di colpa, mentre una consapevolezza ancestrale gli sussurrava con voce roca e lontana che era inutile.
Le sue reazioni scivolavano dai lunghi pianti frammisti a singhiozzi e capaci di scuotere l'anima a parsimoniose lacrime di rabbia che solcavano il viso come colate di lava. Senza che davvero se ne rendesse conto giunse a sentire solo un asettico freddo di sala operatoria, un gelo metallico lontano come il contatto con i propri sentimenti.
Avevano una casa nuova che puzza di mausoleo e proibiva all'affetto di entrare; un luogo buio e crudele che gli risucchiava le energie corrodendolo.
Doveva fuggire o si sarebbe trasformato in un secco rovo misogino e inospitale.
A dispetto delle buone maniere nessuno era il benvenuto e si respirava un'aria malsana foriera di tristezza e desolazione.
Sulla soglia lo attendeva fedele un pesante mal di testa che lo accompagnava per tutte le stanze come un'ombra per lasciarlo solo quando avesse nuovamente varcato la soglia.
Aveva scoperto un trucco, però. Tutti gli strati di nere sensazioni temevano l'acqua come la peste e una doccia calda li portava via con sè, giù per il tubo, ad inquinare il fiume.
E le due malvagie figure dovevano averlo intuito perché quel giorno, al suo rientro, quando più era stato alla ricerca del suo umido rimedio, trovò il gelo a beffarsi di lui. Richiuse il rubinetto, per non sentirlo sogghignare, e fuggì a rinchiudersi nella propria stanza, al tiepido riparo della vecchia coperta rossa e blu. Non voleva tornare tra loro a sentirli vomitare fiotti di parole insensate e sempre uguali. Non potevano più fargli del male, ormai erano più che altro un fastidio sottile; quel che più detestava era l'idea di passare altro tempo nel rimbombo delle loro lamentele, fingendo di ascoltare e incollato, costretto a non fuggire finchè i diavoli non fossero sazi del proprio spettacolo.
Eccone un assaggio irrompere nella quiete della stanza. Toc-toc.
Un mostro lo chiamò per nome, diede fondo alla propria riserva personale di calma dell'81 e rispose: “Eh?”. Lo stava chiamando nuovamente. “Cosa c'è?” “Posso entrare?” “Si.” Aprì e gli riversò addosso un “Fai fatica a rispondere? Ti ho chiamato sei volte.” “Ti ho risposto.” Seccato e conciso. “Smettiamola. Ti ho chiamato più volte e potresti rispondere.” E partì un assolo senza capo nè coda a cui resisteva più per stanchezza che per decenza. Era mai possibile che potesse incolparlo anche per la propria sordità?
Le ossa si raggelarono e iniziò a sentirsi febbricitante. Aveva di fronte due sole soluzioni: una era uscire. Glielo avrebbero permesso?
Prima rimaneva ancora il rituale della cena, interessante banchetto muto con la tv come protagonista assoluta. Avrebbe ingoiato tutta la roba il più in fretta possibile nello sforzo di contenere l'impulso omicida.
Poi sarebbe uscito, concludendo un'altra tranquilla serata in famiglia.
Oppure no.