Miriam Ravasio
Abita a Lecco e si occupa di educazione all’immagine nelle scuole. Progetti per guardare ai luoghi, con gli occhi della mente e i mezzi dell’arte. Un lavoro a cui è arrivata “per caso” dopo una vita (grafica)POP, spesa a metà fra arte e applicazioni artistiche: pittura, teatro e ricerca d’immagini per tessuti e ricami. Su questa esperienza, iniziata dieci anni fa, ha scritto “Occhio, manuale per l’educazione all’immagine”.

O
rganizza e partecipa a pubbliche manifestazioni, con percorsi tematici di didattica dell’arte, interventi murali di Affabulazione Figurativa. E da circa due anni ha riallacciato il suo rapporto (in verità mai interrotto) con la pittura, nella Luce di un nuovo percorso " perché l'arte è un dono che si testimonia con amore"

I PETEL DI MIRIAM


Poesie a colori o colori in rima, verrebbe da dire per le opere di Miriam Ravasio, artista che nelle sue più recenti opere dimostra di aver raggiunto una maturità inattaccabile, risultato di una sicurezza artistica oramai consolidata. Un percorso, il suo, di continua ricerca espressiva dove i protagonisti sono gli uomini altri - che potremmo benissimo riferire alla concezione classica dell’individuo - e i loro olimpi. Colonne, capitelli, templi, obelischi, grattacieli che si arrampicano sulla tela come scale; il cielo come porta e meta ultima del divenire. E poi l’aruspice che attende la creatura celeste, forse segno di svelata verità o salvezza, oppure simbolo di quel generale “recupero” dopo il decadimento umano,”ritorno al mondo nuovo” nella profezia di Huxley. Dalla grafite e gessi, sperimentando il collage materico, l’olio, la carta, la sabbia e una consapevole manualità, Miriam Ravasio spacca la forma imponendosi all’opera con la semplicità del bambino. Proprio per questo – in virtù di un’opera che mi ha convinto profondamente - mi sento di paragonare il linguaggio pittorico dell’artista a quel che Zanzotto definiva “petèl”, ossia il linguaggio dell’infanzia, “borbottio dalla sonorità liquida”, che qui si traduce nei colori e nell’apparente elementarità delle forme. L’artista infine pare porci una domanda, e lo fa a modo suo, con quella leggerezza timida che ne distingue l’animo sul sottile filo di una contiguità, la stessa che lo lega, in qualche modo, alla recherche di proustiana memoria : cos’è la vita se non la continua ricerca del proprio tempo perduto? Tempo perduto che, per non abbandonare la comodità delle nostre gabbie, chiameremo infanzia.

Leonardo Fiasca (alias di qualcun altro)

 

Calolziocorte (LC)  marzo 2012


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